di Susanna Labirinto
Cara Diana, quante volte ho pensato di scriverti! E quante volte l’ho fatto, in una sorta di scrittura interiore senza carta e senza file! Eccomi qui, oggi, in pieno percorso di psicoterapia, a scrivere a te (o forse a me) per dirti cose che tu non puoi sentire.
Ho capito il come, non il cosa: questa è la vera novità. Non ti scrivo per rivelarti cose che hai ben chiaro di non voler sapere, ma che sai. Sai perché te le ho dette, sai perché c’eri anche tu.
La buona nuova, per me, è quello che ho capito solo grazie alla psicoterapia (la quarta).
Ho sempre pensato di dover tagliare col passato, rompere con te, mandarti a cagare, tu e tuo padre, nostro padre, padre nostro, padre mostro.
E invece i pezzi non li devo perdere, li devo ri-assemblare.
Ho la costante sensazione di perdere i pezzi. Ho paura di disintegrarmi. Mi vedo molteplice, vedo la realtà come in uno specchio rotto, dove ogni frammento riflette tutto / riflette poco. Quasi penso di capire perché non ho un riconoscimento adeguato, professionalmente: vedo troppe cose contemporaneamente. Le sento, le ascolto, le annuso, le tocco e diventano pezzi di verità. La verità a pezzi, in frantumi.
Se cerco me, invece, posso cercarmi tanti. Frantumata, ma me comunque. Ricomposta.
Oggi. Non ieri, solo oggi. È un concetto che avevo sempre avuto chiaro, quello della scissione da ricomporre, quello di un io frantumato che cerca di essere compensato.
Eppure non avevo capito un cazzo di tutto questo applicato a me. Cercavo di togliere zavorra, di tagliare radici, di scaricare ricordi pesantissimi.
Il trucco è cercare di ricomporre il puzzle e metterti al posto tuo. Non lasciarti invadere l’intero: né a te né a lui. Io sono l’intero. Voi pezzetti, per di più abbastanza marginali.

Io sono l’astronauta
che esplora il puzzle,
sono anche il puzzle stesso;
tu sei un pezzetto di azzurro
in basso a destra
Non riesco mai, con te, a darti un’immagine di me che mi soddisfi.
Se recito il va-tutto-bene, mi faccio schifo da sola. Eppure lo uso, eccome se lo uso, il copione da tranquillante per vecchi genitori e sorella lobotomizzata emotiva. Ma non vorrei, ovviamente. E non mi piaccio, detta così.
Se ti racconto di me fallita, riesco a farmi almeno compatire. Di amore non si parla.
Se provo a definirmi per la mente che ritengo di avere, semplicemente non mi senti. Non sono una docente universitaria, perché le università private non contano. Dovrei almeno essere a Bologna, o – se proprio ci vogliamo accontentare – alla Sapienza. Ma comunque insegnare sociologia è ben poca cosa per chi ha una laurea in fisica e il figlio architetto. Solo se fossi diventata docente universitaria di una disciplina scientifica in un’università pubblica e del Nord: questo avrebbe attirato la tua attenzione su di me. Le cose che io so e che capisco – e che sono in grado di spiegare a degli studenti universitari – non contano. C’è perfino la possibilità che non esistano.
Io-docente-universitaria-con-un-dottorato, di certo, non esisto.
Se proviamo a parlare di cosa sia la formazione e di cosa sia il sociale poi rischiamo addirittura di entrare in universi paralleli che nemmeno prevedono l’acquisizione di una benché minima professionalità. Ci sono cose da sapere e da capire? Non potrebbero farlo tutti, quello che faccio io? Tutti in famiglia abbiamo fatto volontariato e catechismo, no?
Ancora una volta: sbaglio io a chiederti la certificazione di esistenza (figuriamoci di valore!); sbaglio io a chiedere a te oppure alla nostra famiglia di vedermi per chi sono.
Io sono troppe cose. Ma sono troppe solo per chi ha la vista corta. Io sono tante cose e sono fiera di avere dentro di me tutte quelle parti.
Ne cerco l’armonia. Ne cerco l’equilibrio. Anche se so che tante parti di me saranno sempre sghembe, dissonanti, inquiete. E tante, tantissime riusciranno a suonare sinfonie da orchestra. Io sono tutta l’orchestra. Comprese le tendiniti dei contrabbassisti. Con le date fissate che sono pesanti e la nausea da prova e riprova. Con la bellezza della musica.
Ho sempre avuto paura delle definizioni di me, come se, a raccontarmi, rischiassi sempre di non dire l’altro pezzo di verità.
Il segreto, mi sembra di capire, sta nel non cercare di farmi la foto per la tomba.
Vorrei infilare nella tua testa l’enciclopedia di me, ma poi ne manca sempre un volume. Vorrei scriverti articoli di giornale, ma che si sa che sono solo pezzi del reale.
Vorrei scriverti il romanzo della mia/nostra vita, ma tu leggi solo capitoli sicuri.
Forse posso raccontare, di me, soltanto in poesia. Che non si capisce, ma si capisce.
Io sono una poesia.