di Carlo Maffei
Che effetto fa vedere una madre che piange? Ma, soprattutto, che effetto fa vedere la propria madre che piange? Nelle persone normali suscita pena, presumo. O almeno compassione. In me no. Nemmeno un po’. A me vedere mia madre che piange fa venire in mente una sola parola: «ricatto».
Voi direte: «Sei un mostro. Sei uno stronzo. Sei senza cuore». Sarà. Come diceva Jessica Rabbit: «Io non sono cattiva. È che mi disegnano così». Traduzione: mi ci hanno fatto diventare, mostro, stronzo e senza cuore. Ho visto troppe volte mia madre piangere, quasi sempre per motivi non solo futili, ma proprio idioti, motivi che lei stessa si inventava per…
…già, per quali motivi mia madre piangeva? Be’, è presto detto: per ricattarmi. Mia madre piangeva per farmi sentire in colpa, per manipolarmi. E mio padre la spalleggiava.
Dopo il primo, devastante attacco di panico quando avevo 18 anni, il secondo momento topico della mia vita risale a 16 anni dopo. È una calda sera di giugno. La ricordo con estrema chiarezza, come se fosse ieri sera.
Nel soggiorno dei miei genitori siamo in tre: loro due su poltrone affiancate, e io seduto su un pouf. Mia madre si sporge dalla poltrona. Abbraccia mio padre e gli tiene la testa posata su una spalla. Piange. Singhiozza in modo disperato. Anche mio padre ha gli occhi lucidi. Mia madre dice: «Franco, abbiamo sbagliato tutto! Tutto! Come genitori siamo stati un fallimento!». No, non lo dice. Lo grida.
Io li guardo. Sono seduto lì e li guardo. Mentre li guardo, osservo e constato quello che succede dentro di me. Cioè niente. Non succede assolutamente un cazzo di niente. Io guardo queste due persone, i miei genitori, che piangono, che si disperano, e non provo nulla di nulla. Non un moto di compassione o di dispiacere o di rimorso. Zero. L’unico pensiero che riesco a formulare è questo: «Non me ne frega un cazzo. Questi due stanno facendo una tragedia per una cosa che è una stronzata e che comunque non li riguarda. È una tragedia che si sono inventati loro due».
Che cos’era successo?
Nel 2000 io ho 34 anni. Mi sono laureato quasi 10 anni prima. Ho due lavori: uno come libero professionista in Italia, dove vivo da solo, e uno come dipendente in Svizzera, dove sto due giorni alla settimana ancora ospite dei miei genitori.
Sono mesi difficili sul piano emotivo. Sto uscendo da una relazione sentimentale di lunga durata ma che si trascina da tempo senza più entusiasmo e ho iniziato una storia con un’altra donna. Una storia complicata, perché lei sta divorziando e ha un figlio. Quindi un gran tira-e-molla, ti-piglio-e-ti-lascio, vorrei-ma-non-posso. Niente di straordinario: uno dei tanti casini sentimentali in cui gli umani si ficcano facendosi del male da soli e reciprocamente. Cose che càpitano. Fanno male, ma càpitano. Càpitano, ma fanno male. Difatti io ci sto male. Parecchio. In tre settimane ho perso 8 chili. Non mangio più. Non dormo più. Fatico ad alzarmi dal letto ogni mattina. Il lavoro è diventato uno sforzo immenso. Tutti chiari segnali di una depressione.
Che fosse una depressione avevo cominciato a sospettarlo proprio in quei giorni. Di conseguenza avevo preso un appuntamento con uno psichiatra, che dovevo incontrare la mattina dopo quella sera. Solo che, nel frattempo, alcuni giorni prima, avevo commesso un errore madornale: per spiegare ai miei genitori la causa del mio malessere, avevo rivelato i miei casini sentimentali, cioè che avevo lasciato la mia compagna e avevo iniziato una relazione con una donna sposata.
Ora, non dico che ai miei dovesse far piacere. Ma da lì a farne una tragedia ce ne corre. Invece andò proprio così: l’atmosfera in casa era diventata subito irrespirabile. Tuttavia loro stessi si rendevano conto che non potevano calar lezioni a un adulto di 34 anni. Perciò avevano iniziato un logoramento psicologico subdolo, fatto di insofferenza per altri motivi, reazioni sempre rabbiose, pianti immotivati scatenati da episodi futili. E da mia madre avevano cominciato ad arrivare sistematici rimproveri – guarda un po’ – proprio per quelli che erano i sintomi della depressione: «Non mangi niente! Stai buttato sul divano tutto il giorno! Fa’ qualcosa! Datti una mossa! Lavora!». Non lo diceva mai esplicitamente, trovava solo pretesti per aggredirmi, ma la causa era sempre la mia relazione con una donna sposata. Fino alla tragedia greca di quella sera. E mio padre a darle corda, a piangere con lei sulla poltrona.
Io a quel punto non ce la faccio più. Per questo ricordo quella sera come una rivelazione, quel pensiero come un’epifania: «Non me ne frega un cazzo». Per la prima volta nella mia vita – sebbene nella depressione, anzi forse proprio a causa della depressione – riesco a emanciparmi da tutti i sensi di colpa e da tutti i ricatti dei miei genitori. Riesco a osservarli con distacco e indifferenza assoluti, come se fossero due estranei totali.
L’indomani vado dallo psichiatra. Che mi ascolta, comprende la mia situazione, valuta i sintomi e conclude: «Sì, tu sei nel pieno di una depressione. Si capisce. Infatti hai rivoltato la tua vita come un guanto. È normale. Adesso dobbiamo fare due cose. La prima è tirarti fuori dal buco in cui sei finito, e per questo ci sono gli psicofarmaci. E la seconda è cominciare una bella psicoterapia». Quel colloquio è l’inizio della mia rinascita. E la psicoterapia che sarebbe seguita è stata l’esperienza più importante della mia vita.
Tornato a casa, riferisco ai miei genitori che cosa mi aveva detto lo psichiatra: sono in depressione, ho bisogno di prendere delle medicine, di iniziare una psicoterapia. Non ricordo la loro reazione lì per lì. Penso che non ci capiscano niente. Una depressione non rientra nel loro orizzonte degli eventi possibili. Andare dallo psichiatra significa essere matti. Per non dire della psicoterapia. E per loro io non sono matto: sono solo un egoista superficiale che deve comportarsi da adulto, da persona seria. Perciò da parte loro non cambia nulla: grida, pianti e rompimenti di coglioni come prima. Non proprio la reazione migliore per un depresso, come sa bene chiunque conosca la depressione.
Da parte mia invece cambia tutto, perché smetto di parlare con loro. Non immediatamente. Ci vuole del tempo e l’allontanamento è progressivo. Ci vogliono centinaia di ore di terapia. Ci vuole molta sofferenza, per arrivare a capire che tutta quella situazione affondava le proprie radici nell’infanzia. Come sempre succede.