di Susanna Labirinto
Tutte le volte in cui abbiamo studiato una guerra, a scuola, abbiamo fatto – per lo più senza esserne consapevoli, tranne le volte in cui abbiamo avuto un vero insegnamento – contemporaneamente due cose: storia e storiografia. Abbiamo sentito parlare di una guerra e abbiamo sentito parlare di una guerra.
Nelle guerre tra generazioni (a scuola ce lo dovrebbero dire) funziona così, più o meno. Le guerre si scompongono in battaglie. Sono stata una figlia e sono una madre: ho combattuto per la mia emancipazione e ora non posso far finta di combattere per le pulizie di casa. Serve una vera storiografia.
Mia figlia vince sistematicamente (da quando abitiamo da sole) le battaglie del cibo-sul-divano. Posso mettere in atto le più raffinate strategie, ma la buccia di banana resta a me, la mattina dopo. Anche se qualche volta ottengo il risultato, non è mai definito: succede che risuccede. Commento delle mamme perfette: «i miei figli non lo fanno mai». Commento delle mamme moderne: «non la buttare tu, l’immondizia, lasciala finché non ci pensa lei». Commento delle mamme semplici: «è bello che i figli sappiano che noi ci siamo». Commento delle mamme vigliacche: «questi figli sono degli ingrati». Commento delle mamme depresse: «ho sbagliato tutto, sono solo una serva, mia figlia non vuole un vero rapporto con me».
Ecco: a questo punto mi fermo e capisco dove mi colloco. È capitato per caso che proprio stamattina il mio blogger preferito pubblica un articolo sulla capacità di interpretazione della realtà che la vena depressiva ci potrebbe fornire. Non sono “in depressione”, ma ho di sicuro un modo “da depressa” di leggere il rapporto con mia figlia. Come racconterebbero Tacito o Guicciardini la storia dei barattoli di nutella? Quante mamme lavano personalmente il barattolo (quasi-finito, di solito) e quante promettono solennemente che non la comprano più, finché quel barattolo non viene lavato e buttato nel giusto scomparto della differenziata? Quello che mi preme, in questa cosa che sto scrivendo, non è difendere/attaccare un modo di fare i genitori, quanto piuttosto capire quale storiografia viene utilizzata. Mentre mi davo della depressa e leggevo il mio amico geniale, Choam Goldberg, che indica una possibilità di lettura (senza assolutizzarla, anzi, mettendone in rilievo anche i pericoli) che la depressione fornisce, mi veniva in mente proprio questo: la cosa importante non è capire tutto, ma capire che non possiamo confondere i fatti con la lettura dei fatti.
Fare i genitori e commettere errori: espressioni quasi sinonimiche. Essere figli e combattere la visione dei propri genitori: altrettanto. Allora come se ne esce vivi, da figli o da genitori che sia?
- La prima cosa che si fa, in una guerra, è la conta dei morti. Scordiamoci tutti che sia possibile crescere in maniera indolore. Ci sono perdite e sono molto traumatiche. Perdite subite e perdite provocate. Nessuno è buono, nessuno è illeso. Qualcuno obietterà che il rapporto tra genitori e figli non è una guerra, che l’errore sta proprio nel punto di partenza. Auguri, dunque, mi faccia sapere, quel qualcuno, quando trova una metafora più vera;
- Fare la conta dei morti non significa esaurire le sfumature della verità di una guerra. Difficilmente una guerra porta all’estinzione di una parte. Per il resto, ciò che conta di più è ricostruire, convertire in forza le perdite subite, così come abbandonare vecchi schemi, ma anche accettare le fragilità. Che la mia simpatia vada più alle letture drammatiche che ai facili entusiasmi sulle rinascite psicofisicospirituali qui conta poco, perché lo storiografo serio raccoglie tutte le testimonianze, da più fonti possibile. Quando si ha chiaro cosa è successo, si può procedere ai Trattati di pace. Nasce così la possibilità stessa di quella convivenza forzata che si protrae per anni che chiamiamo famiglia;
- Ad ogni guerra, perfino a qualche brandello di singole battaglie, corrisponde il racconto dell’accaduto. Come ci raccontiamo amplifica, modifica, perfino crea come ci vediamo. Se sono nella posizione del figlio, questa cosa suona plausibile: crescendo mi formo un’idea di me anche in conseguenza di ciò che estorco alle figure di riferimento. Se sono un genitore, invece, sembra sempre che la cosa importante sia farsi un’idea dei figli, di come modellarli, di come aiutarli. Balle. La cosa più importante è farsi una nuova idea di sé. Per “nuova” intendo più consapevole, se possibile più scelta. E meno delirante: non abbiamo tutto questo potere.
Ciò che ho imparato dai miei figli è come migliorare il mio essere figlia. La mia visione disincantata del potere che un genitore ha, nel determinare il futuro di un figlio o di una figlia, è estremamente ambivalente: lascia cicatrici purulente e nel contempo non conta un cazzo. Le generazioni di genitori precedenti agli anni Sessanta del Novecento sono state quasi totalmente insensibili a questo fatto. Le generazioni successive ne sono state devastate. Chi ha sofferto, da figlio/a intelligente, ha smesso di desiderare figli oppure ha cercato di diventare un bravo padre o una brava madre (soffrendo della frustrazione più bruciante). Chi non ha sofferto come figlio/a ha solo spostato il problema alle generazioni successive.
Il dolore, i morti, i Trattati, i racconti: queste vite guardate e raccontate sembrano catastrofi, a uno sguardo emotivo. E un po’ lo sono. Ma non sono mai la fine della storia.