Appartenere

di Susanna Labirinto

Il bisogno di appartenenza è antico come il mondo. Il senso di appartenenza è ciò che offrono la famiglia, le chiese, l’associazionismo, i social: non sempre tu realmente appartieni a «là», ma ne hai la percezione (o dispercezione, o iperpecezione). Sei «suo figlio», «sua sorella», «suo socio», «suo fedele», «sua amica»… dall’altra parte, il senso di indipendenza. E la solitudine connessa.

Appartenere a una realtà non è un bisogno connesso all’individuo, ma alla sua socialità. Non serve alla persona per stare bene con se stessa (altri sono i criteri con cui si coltiva la soddisfazione di sé): serve a stare bene con gli altri. E non in quanto la persona si definisce meglio, bensì in quanto la definizione di quella persona risulta chiara a tutti.

Se sei un dottore, ad esempio, hai un ruolo sociale. Bello o brutto, criticabile o meno, si sa cosa fai e quindi chi sei. Se fai qualcosa che gli altri non comprendono oppure per cui non ci sono parole adatte, non si capisce nemmeno chi sei. Anche se tu lo sai, basta che non ti sia semplice spiegarlo e il gruppo tende a espellerti. Crei un problema. Di parole, di ruoli, di identità: sei potenzialmente un pericolo.

I gruppi sociali sono espulsivi perché hanno bisogno di una identità chiara. Se tu non ce l’hai per te, rischi di mettere in discussione il fatto stesso che sia necessaria una definizione identitaria. Anche se non era tua intenzione, apri una falla. Tu, che rivendichi le sfumature, metti a rischio la riconoscibilità dei colori.

Essere riconoscibile è il primo, ineludibile passo, verso l’essere accettati.

Mettiamo nei nostri post – io e Carlo – le nostre sfumature, i nostri dubbi, le nostre angosce, perfino il rancore e l’odiato senso di colpa: dove ci porterà tanta fatica emotiva?

La famiglia è la famiglia. Non si tocca. O c’è o non c’è. O serve o non serve.
O appartieni o sei fuori.

O forse si può, almeno nei post, mettere in discussione qualcosa? E a noi ne verrà del buono?

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