di Eli Sandalo
Ho un’amica spudorata. Ha poco più di 40 anni e fa l’insegnante di musica, privatamente. Qualche giorno fa mi chiede di scriverle una cosa, tipo «quello che diresti tu se avessi un palco per due ore».
Ma come – dico io – cosa direi a chi? Non è che uno prende e dice le stesse cose ai bambini, alle volontarie della Caritas o ai genitori di ragazzi tossicodipendenti. Ma che razza di esempi… chi sono queste persone? No – dico io – era così per nominare qualche target specifico, a cui direi cose specifiche, ma soprattutto cose diverse in modi diversi, con linguaggi diversi, perfino con parole diverse… e poi, anche se dovessi dire la stessa cosa, non sarebbe mai la stessa cosa.
Ma è proprio questo, quello che voglio che tu mi scriva!
Insomma, vuole che io le scriva quello che direi io a proposito di come si dicono le cose a seconda di chi ti sta ad ascoltare.
Allora ci sediamo e mi spiega di che cosa ha bisogno.
C’è un teatro a gestione estremamente fluida, a un centinaio di chilometri da noi, in cui di recente lei ha fatto un saggio con i suoi allievi. Scopre che in questo teatro vengono ospitate anche iniziative di privati, di associazioni culturali, di chi vuole fare chissà che cosa un po’ a caso. L’affitto costa poco e gli spettatori sono garantiti, perché pare che attiri un’accozzaglia di persone che vagano, spesso diverse tra loro, mai le stesse. Assomiglia a quelle cose che devi per forza fare, quando vai in quella città. Non sai mai cosa trovi, ma puoi dire di essere stato al Teatro dei Carboni. Si dice anche «ai carboni», non so se perché c’entrano dei carboni come fossili oppure se si riferisca a una famiglia di cognome Carboni. Non lo so.
Fatto sta che dal lunedì al venerdì, da maggio a settembre, qualcuno sale sul palco. E stai certo che qualcuno viene e a vederti. C’è chi racconta di aver visto cose sperimentali ai limiti del vomito, ma anche quello è un racconto che puoi fare, delle tue vacanze. C’è chi dice di averci sentito cantare qualcuno che poi è diventato qualcuno. C’è sempre qualcuno che si prenota: lo puoi fare dal primo al 28 febbraio, poi non ce n’è più.
E lei, la mia amica, lo ha fatto. Le hanno dato il 28 di settembre: pare fosse uno degli ultimi rimasti, ma anche un giorno che costa meno degli altri, a chi prenota e chi ci va. Ci ha messo sopra praticamente tutto quello che aveva guadagnato con il saggio dei suoi allievi. Ma era comunque un di più, rispetto alla solita mesata. Quindi: denaro ben investito.
Che cosa ci voleva fare, ecco l’elemento che mi mancava per capire come potevo aiutarla. Non basta dire «Scrivi»: si scrive sempre per una ragione.
Mi spiega che il suo obiettivo era capire se era in grado di raccontare a sconosciuti qualcosa che durasse due ore. Aveva anche pensato di recitare un monologo scritto da qualcuno di famoso, solo per mettersi alla prova con l’effetto che fa stare su un palco senza pianoforte. O forse con pianoforte e parole. Mi ha anche chiesto se volevo esserci anche io, sul palco, magari solo per un frammento di cosa. Sapeva benissimo che avrei detto di no.
Ecco: ho trovato. Scrivimi un pezzo sul perché non vuoi salire sul palco. Io reciterò un personaggio che non sono. È evidente che non sono io, visto che io ci sono, sul palco. E allora faccio te che ti descrivi: così è finzione con tanta realtà. Io recito, tu ci metti l’autenticità.
Il perché non voglio salire su un palco non tiene inchiodati due ore. Chiedimi qualcos’altro.
Primi 10 minuti: perché non intendi per nessuna ragione al mondo salire su un palco. Seguenti 20 minuti: chi sono io (tu) che vengo rappresentata da un’attrice (che poi è quella sul palco). Mezz’ora successiva: come si dicono le cose a qualcuno che non sai chi sia.
10 minuti di pausa. Seconda parte (50 minuti di fila): a cosa serve raccontarsi e cosa succede quanto a raccontarti non sei tu, ma un personaggio di cui il pubblico non sa niente, mentre sa tutto di te che vieni raccontata.
Cazzo, mi è sembrato stupendo. Mi è venuta voglia di dirle di sì.
Riassumendo, per punti:
- Perché non intendo salire su un palco
- Chi sono io che vengo raccontata
- Come racconto di me a voi che non so chi siete
- A cosa serve raccontarsi
- Conclusione: parla di me che non ci sono una che c’è a voi che ci siete. Cos’è successo, in tutto questo?
- Post-conclusione (aggiunto da me per l’attrice): non credi che dica tanto di te, questa cosa che vuoi parlare di me?
- Post-post-conclusione (aggiunto da me per il pubblico): non credete che sia successo qualcosa anche a voi, che vi siete fatti coinvolgere da questa roba qui?
A ogni passaggio di punto, la mia amica suonerà per circa un minuto.
Pianoforte e parole: ecco il sottotitolo del suo evento.
Ed ecco il testo che le ho scritto.
1. Perché non intendo salire su un palco
Per prima cosa, anche se voi sentite una voce di un’età che potreste identificare tra i 35 e i 45, ho quasi 60 anni. Alla mia età, una donna non è più bella. Io lo sono stata, ma ora mi sono trasformata in altro. Non sono quasi più una donna: sono un corpo pesante, in cui prevalgono gli inestetismi.
A 30 anni – va proprio detto – una donna è attraente. Anche se gli inestetismi esistono: anzi! Non è bella una donna che sembra un manichino, finta e porcellanosa come se nemmeno esistesse. È bella, una donna, con qualche difetto e qualche chilo in più o in meno. Una donna ideale la immagini. Una donna reale la tocchi, la accarezzi, la abbracci.
Se infili a forza in un corpo 20 chili lo sformi, c’è poco da fare. Se eri una bella donna, adesso sei una donna grassa. Sei un corpo che si muove nello spazio occupandone troppo.
La prima ragione per cui non intendo salire su un palco dunque è che non mi piaccio più. Vedreste ciò che vedo io: rughe, doppio mento, braccione, culone.
È umiliante, essere guardati, se non ti piaci.
Un palco è uno spazio e un tempo in cui la si fa da protagonisti. Come si può pensare di salire su un palco se si vuole evitare di essere visti?
Se mi guardi, mi vedi. Se ti lascio spiare, mi lascio fotografare dal tuo sguardo. E giù, davanti al palco, non c’è un tu, ci sono tanti tu. Tanti sguardi che mi spiano e mi vedono e mi umiliano.
Se tu e poi tu e poi tu e poi tu… mi guardate, ho paura di dover sparire.
Nascondermi. Morire. Non esistere.
Come se tutto ciò non bastasse, non salirei mai su un palco perché non sono fatta per la performance. Sono un tipo più «zeroprestazioni».
2. Chi sono io che vengo raccontata
Io credo nelle parole. Non credo in Dio, nella reincarnazione, nei repentini cambiamenti delle persone. Ma credo fermamente che, ogni volta che qualcosa viene detto o scritto, succede qualcosa.
Se oggi la mia attrice vi dicesse che sono una che augura al proprio padre di morire, voi avreste voglia di guardarmi, di vedermi, di farmi essere e restare qui con voi? Se mimasse la me che odia, mi trovereste intrigante o repellente? Io credo che vorreste cambiare argomento. È odioso, l’odio. E poi è fin troppo raccontato.
Pensa un po’: è proprio per colpa di mio padre che io mi trovo repellente. Non sono mai riuscita a credere di meritare i baci, gli abbracci, le carezze per questo corpo che piaceva troppo. Alla fine, è stato proprio il desiderare di essere toccata che mi ha fatto pensare di non meritarlo mai.
Se invece la me-qui-sul-palco vi dicesse che ringrazio (quasi vecchia io) la mia mamma vecchia, perché non mi ha protetto, mi credereste? Un pugno, altro che grazie!
Eppure… io so che il suo non dire niente ha fatto più di tante parole.
Mi ha dato la misura del percorso. Respiro corto: tutti fermi qui. Respiro lungo: vai altrove, ché puoi. Mi ha detto – senza dirlo – che potevo azzardare a farmi una strada tutta mia. Mi ha lasciato pensare – e ha fatto bene – che avrei trovato un mio modo di stare a questo mondo. Anche senza sesso e senza amore, non ne sarei morta.
Mi ha fatto credere – e aveva ragione – che in qualche modo mi sarei piaciuta comunque. Altrove. Non nella cazzo di strada segnata, non nel solco delle tradizioni di famiglia, bensì nel mondo, in questo cazzo di mondo da paura. Di cui non ho poi tanta paura.
Ecco chi sono io: una che ha coraggio.
3. Come racconto di me a voi che non so chi siete
Vi parlo delle parole. Non so chi siete, ma so che questa cosa non può non interessarvi. Abbiamo per le mani uno strumento potente: la lingua che parliamo e scriviamo. Parlare e scrivere è un dono di cui troppo poco ringraziamo la vita. Lo diamo per scontato, lo immaginiamo un’attività istintiva, come mangiare e bere e cagare. Le parole non le caghiamo, invece: le scegliamo perfino quando non sappiamo di farlo. E se la maggior parte di noi parla e scrive in un modo che fa cagare è perché non prestiamo alle parole l’attenzione che meritano. Non pensiamo (in fondo) di meritarci un tempo per scegliere le parole.
Vi ho detto solo un paio di cose di me, attraverso le parole dette e lette dall’attrice, eppure non ci sono che io, in questo palco. Che sono l’unica che ha dichiarato di non poterci stare. Vi rendete conto della potenza della verità che c’è nella finzione narrativa?
Sono sicura che qualcosa, qua e là, parlava di ciascuno di voi. Non serve avere una storia drammatica di famiglia. Basta avere una famiglia.
Basta essere figli per comprendere quanto è difficile stare a questo mondo.
E nonostante tutto vogliamo anche vivere.
E amare ed essere amati.
Se avete provato almeno una volta nella vita quella tenaglia allo stomaco che è la sensazione di non meritare, di non essere abbastanza o di essere troppo, di non essere adeguati o di essere diversi… so che apprezzerete l’incontro con me e con la mia fede nel raccontare.
4. A cosa serve raccontarsi
Non vale solo per me, che mi sono fatta raccontare dall’attrice. Vale anche per l’attrice e per tutti voi che la state ascoltando. Varrà anche per chi la sentirà una volta registrata, questa cosa che sto per dirvi.
La mia amica mi chiede di scrivere qualcosa su questo: a cosa serve raccontarsi?
La mia risposta – non dico la risposta giusta o vera: la mia – è inequivocabile. Non serve.
Per fortuna – dico io – non siamo perennemente costretti a fare solo ciò che serve, è utile, è nobile o socialmente accettato, possiamo anche fare qualcosa che non serve a un cazzo. Ecco: raccontarsi è un’adorabile, dolorosa, inevitabile attività non produttiva.
Guardate i bambini: io ero il papà elefante, tu eri il cucciolo di uomo. Si raccontano, inventando mondi impossibili, le infinite possibilità delle versioni di mondo.
Dobbiamo passarci tutti, presto o tardi. Sia per la spudorata finzione dell’immaginifico, sia per la spietata realtà di noi che, alla fine della fiera, non contiamo un cazzo.
Viviamo dentro favole e miti, poi torniamo da noi-formichine, con tenerezza. Noi-irrilevanti siamo il vero eroismo.
5. Conclusione: parla di me che non ci sono una che c’è a voi che ci siete. Cos’è successo, in tutto questo?
Stiamo concludendo. A questo punto sapete di me cose che non vi avrei voluto dire. Non mi avete chiesto di dirvi di me e non l’ho fatto, perché non ci sono.
C’è la mia amica, l’attrice, che mi ha voluto rappresentare per parlare a voi che forse non capirete, forse sì.
Lei voleva misurarsi con il palco, per sé stessa, per scoprire qualcosa di sé che noi non possiamo capire. Il suo bisogno ha tuttavia una ricaduta positiva su di me (ché così esisto) e su di voi (che direte «sono stato ai carboni, c’era una voce con pianoforte, quella sera»).
Quindi la verità, almeno la prima in superficie, è che l’unica ragione per cui questa serata esiste è far sperimentare la mia amica. O al massimo per far dire a voi che avete fatto una cosa figa in vacanza. E io? Dove sono io?
Non vi ho detto quasi niente, eppure vi ho parlato della morte dei miei genitori. Che poi è una cosa piena di simboli: uno psicanalista, altro che due ore!
Voglio dire però che, grazie all’egocentrismo della mia amica e alla vostra ingenua partecipazione, qualcosa è successo anche a me.
Cos’è successo? Che mi avete incontrato.
6. Post-conclusione (aggiunto da me per l’attrice): non credi che dica tanto di te, questa cosa che vuoi parlare di me?
Parliamo solo per un attimo di te.
Sai chi sei, tu? Sei un medium. Non una medium, di quelle che parlano coi morti, no! Un mezzo che trasporta pezzi di me da me a loro.
Tu, che vuoi stare su un palco, vuoi essere una voce e un corpo, che vive ed esiste per dire una storia: la mia. Cosa provi, cosa vuoi, cosa ottieni? Non so se ti capisco, ma capisco che non posso fare a meno di te almeno quanto tu non puoi fare a meno di me.
E io, che ho cominciato tutto dicendo che non voglio essere vista, qui sul palco, ho attraverso di te un’occasione straordinaria.
Io non voglio essere vista, ma voglio essere viva. La tua presenza, qui sopra, mi permette una vita non vista. Non è che voglio vivere a tutti i costi, a caso, a cazzo: voglio avere un posto mio, un ruolo mio che non sia il tuo e non sia il loro.
Attraverso di te, in fondo, io incontro loro. Io che non riesco a essere toccata, abbracciata, accarezzata, baciata, posso – almeno – essere letta.
7. Post-post-conclusione (aggiunto da me per il pubblico): non credete che sia successo qualcosa anche a voi, che vi siete fatti coinvolgere da questa roba qui?
Parliamo, solo per un attimo, di voi.
Voi, stasera, mi avete fatto un grande regalo.
Ciò che voglio e devo e posso fare è dirvi grazie.
Mentre l’attrice recita e mi legge, io riesco, attraverso di lei, a essere ascoltata.
Essere ascoltata è la cosa più vicina all’essere vista.
E all’essere viva.