Bits 1 – per oggi

di Eli Sandalo

Bits sta per Born In The Sixties:
Born
In
The
Sixties

Non ha una grande importanza dove: sono nata in quella parte di mondo in cui questa dicitura, questo riferimento al quando, ha un senso. Se per voi ha senso sentirmelo dire, che sono nata in quel periodo storico, allora siete in grado di ascoltare questo mio racconto. Dico ascoltare perché ciò che scrivo non è un romanzo (di finzione o autobiografico). In quel caso avrei detto che potete leggerlo. Questa cosa è una mezza conversazione: la parte in cui parlo io.

L’altra categoria di cui voglio parlare sono le Mits (e i Fits, ma un po’ meno): Mothers in the Sixties (e Fathers in the Sixties). Io invece sono una Mit2 (21st century oppure 2000). Non mi interessa moltissimo parlare del passato, quindi non vi aspettate che descriva gli Anni Sessanta. Mi preme dire chi sono. Poco e niente so dire inoltre di cosa accadrà. Parliamo di adesso. Anni Venti del Ventunesimo secolo. Con gli occhi di una Bits.

I corpi di noi Bits sono un cazzo di problema. Siamo obese o anoressiche, siamo in tiro o decadenti, trascurate, sciatte o parrucchierate-tutte-le-settimane; siamo ancora belle o siamo state belle o siamo brutte come prima o più di prima. Personalmente, quando passo davanti a uno specchio mi chiedo che cos’è quella cosa che porta in giro me. Cerco, se posso, di avere meno incontri reali e più virtuali, così la relazione va più su cuore e cervello, meno su corpo. Pesante, la relazione con il corpo. Faticosa, sbagliata.

Le facce delle nostre madri Mits – ne guardo, nella mia mente, almeno una decina – sembrano avere una sorta di cera addosso: come il lucido da scarpe che si usava una volta, ma trasparente. Non è una maschera nel senso del teatro, ma una maschera di protezione della pelle, come una pellicola che non agisce sull’estetica. (Sono invecchiate, da allora; molte di quelle che incontrato non ci sono nemmeno più.) Quella pellicola che non si vede le protegge dall’angoscia. Anche quelle più emotive, incazzose o addolorate, non sembrano avere un vero dialogo con la propria disperazione. In qualche modo devono – o possono – andare avanti.

Le facce di noi Bits (comprese le Mit2 e compresi i Fit2, ma anche i Bits maschi e femmine senza figli) sono la carta topografica dell’incertezza. Anche quelle che sanno più di fumetto che di pittura realista sono la versione cartoon dell’insicuro. Alcuni di noi hanno la versione impressionista dell’ansia, stampata in faccia; altri angosciati colori espressionisti. Quelli invece che sono passati indenni attraverso la totale distruzione delle certezze hanno due tipologie di volti: il volto incerato dei loro genitori oppure una nuovissima versione photoshoppata dell’ipocrisia. Lo strato di cera o di falsità serve doppio, oggi. Non puoi più essere totalmente inconsapevole. Puoi permetterti di essere sereno solo se sei molto preoccupato di non esserlo. E metti maschere.

A proposito di me come Mit2 vorrei dire diverse cose.
Per cominciare, siamo comunque meglio delle nostre madri, noi tutte, perché volenti o nolenti abbiamo capito che qualcosa stavano/stavamo sbagliando. Da pensare che basta voler bene (anche male) a pensare che boh-non-lo-so si va comunque a migliorare.
Per quanto riguarda le facce di noi Mit2, – diciamoci la verità – non siamo un bello spettacolo. Se faccia male di più l’autentica angoscia o la finta serenità, questo lo diranno i singoli figli e le singole figlie, ciascuno con il proprio vissuto e con la propria fatica di essere figli/e. A me comunque pare che gli lasciamo almeno questo regalo: la consapevolezza che è più difficile essere figli che genitori. La cazzata del beato-te-che-hai-la-pappa-pronta suona quantomeno vecchia, o no?

Facciamo una piccola digressione su come si pronuncia l’espressione Mit2. Per non confonderla con MeToo, ben più famosa, propongo di mettere l’accento sulla prima sillaba (mìttu) mentre l’altra è ormai famosa come mitù. Mi guardo scrivere, mi sento dirle nella testa, queste due robe, mi accade – senza che io lo possa frenare – che mi chiedo quante Mit2 potrebbero dire di sé anche MeToo. Cazzo, quante ne ho sentite, di storie, con questo argomento. Anche prima che diventasse di grido, le ho sentite gridare, le storie gridate sottovoce, con i protagonisti non-famosi eppure molto-noti perché padri, zii, cugini, vicini di casa.
Ogni categoria di protagonisti che ho scritto nella riga precedente è stata una coltellata. Ho rivisto gli occhi delle co-protagoniste che raccontavano la storia, troppo vera, di abuso. Troppo vera perché chiunque ne possa ridere o la possa sminuire. In fondo non è successo un granché. Va’ a cagare.

In questi giorni ho potuto vedere – fino a poco tempo fa non ci sarei riuscita – due serie con due argomentoni per me tabù: abuso sessuale e alcolismo. La ragione per cui non ci sono mai riuscita è che queste cose mi fanno un male boia. La ragione per cui oggi ci riesco non ha a che fare con il non soffrire più. È cambiato il linguaggio con cui se ne parla. Se fossi nata nel Medioevo, forse avrei ringraziato la Madonna e i santi. Oggi posso essere atea e ringraziare gli sceneggiatori delle serie tv. Invece di pregare, guardo. Invece di guarire, elaboro. Invece di espiare, mi voglio bene di più. La narrazione non abusa dell’abuso, non è concentrata su quanto è bravo il regista che scopre che il dolore va sbattuto in prima pagina o in pellicola. Emergono i punti di vista dei tanti protagonisti: non c’è solo chi è cattivo e chi subisce il cattivo. In tanti vengono cambiati da un fatto accaduto (e dal parlarne o non parlarne). In una storia di alcolismo non c’è solo chi beve, perché lo fa, come uscirne. Intorno a quella strada sbagliata ci sono personaggi che prendono sentieri diversi per ragioni diverse, tutti a cercare una mappa che non c’è di un tesoro che non esiste.

Sono nata negli Anni Sessanta del XX secolo. Ma sono – oggi – figlia del XXI. Come siamo diventati quello che siamo, ad oggi, mi preme meno che in passato. Come affrontiamo il futuro – la malattia, la morte, il fallimento sono davanti a noi con prepotenza – mi sembra così difficile da mettere a fuoco che parlarne mi sembra quasi ridicolo. Se un mio coetaneo mi dice che si sta organizzando per un «domani» diverso da domani-domani – o al massimo da domani-prossimi-giorni – lo considero un patetico illuso.
Adesso posso adesso
(in poesia, sarebbe un settenario).

Al di là di cosa non riesco (più o ancora) a fare, la cosa che mi urge di più raccontare riguarda chi sono, o meglio che sono una Pit2. Noi People in the two-thousands possiamo essere nati millennials o 60 anni fa, ma abbiamo qualcosa in comune: siamo in grado di leggere la realtà con gli strumenti del XXI secolo.

Non tutti i Bits sono Pit2: alcuni hanno resistenze al cambiamento e fanno ancora il tifo per le Verità Assolute e per le Strade Giuste. Noi Pit2 di tutte le età sappiamo che non ci sono V.A. o S.G.: cogliamo pezzi di verità percorrendo sentieri. Tanti. Tanti pezzi in tanti sentieri che è difficile pensare di avere il controllo di tale molteplicità.

Continua

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