di Eli Sandalo
Il primo articolo intitolato Bits (Born In The Sixties) l’avevo immaginato con un titolo: per oggi. In quel titolo – che era nella mia testa ma non c’è nel blog – era come se ci fossero due cose che mi erano chiare in quel momento. Potevo dire qualcosa, non tutto quello che avrei voluto dire. Essendo una chiacchierata che facevo con chi mi stava ascoltando, non sarebbe stato realistico tenere una persona – o più persone, non so e non sapevo – un sacco di ore ad ascoltare me. E poi (seconda cosa) avevo chiaro che avevo chiare solo alcune delle cose che volevo dire.
Per oggi va così, mi ero detta. Magari un altro giorno capisco altre cose e magari mi viene voglia di dirvele. Oggi invece mi viene, come titolo, da oggi. Non pensate però che stavolta andrò nel futuro, tipo da-oggi-in-poi. Vale il discorso sull’impossibilità del controllo: troppi pezzi, troppi sentieri, troppe variabili che non dipendono da noi. Da oggi significa che solo oggi ho capito le cose che vi racconto oggi. E che quindi valgono da oggi, in quanto ieri non le avevo capite.
Noi Bits – maschi e femmine, anche se le femmine di più – siamo cresciuti con tante aspettative sul groppone. Mediamente i Fits e le Mits avevano acquisito uno status socio-culturale che superava quello dei loro genitori. Non voglio fare sociologia da strapazzo: con «mediamente» intendo che faccio una media tra le cose che ricordo di aver sentito o letto, ma è il mio bagaglio, è la mia percezione, non la verità oggettiva. Mediamente, ancora una volta, quei genitori pensavano che i figli avrebbero dovuto superarli, ma non c’era una vera chiarezza su questo punto. Facciamo un esempio. Io Fits ho un padre che guadagnava x lire; io guadagno 2x lire; mio figlio deve guadagnare almeno 3x lire. Sempre io Fits però ho studiato più di mio padre e so e capisco più cose, ma mio figlio non può sapere e capire più cose di me. Un po’ destabilizzante, no? Tu, figlio Bits, sei condannato a superare in risultati il tuo Fits, ma non ti venisse in mente di crederti migliore, perché non capisci un cazzo della vita. Mi sembra – dal mio pezzettino di strada su cui ho il culo per terra – che la sensazione di inadeguatezza che leggo negli occhi di tanti Bits abbia origine da qua.
Avendo una sorella maggiore che ha sempre cercato di non deludere le aspettative – se stia soffrendo o meno di inadeguatezza cronica non sta a me dirlo –, ho potuto ricoprire il ruolo di quella originale. Che culo: ma mica troppo. Nella seconda metà del XX secolo se non eri ordinata fino alla compulsione eri disordinata e confusionaria. Se non eri devota ai compiti assegnati eri pigra. Se non avevi una mente matematica eri pasticciona. Io, bambina disordinata, pigra, pasticciona, da adulta mi sono scoperta organizzata, multitasker, sistematica. Vi risparmio cosa comporta essere un’adolescente con questo vestito cucito nella pelle (nella, proprio dentro, non sulla). E vi assicuro che per convincere che sei una professionista devi lavorare il triplo dei non-pigri. Anche se riesci a convincere i colleghi, c’è sempre la famiglia che ti guarda col sorrisetto, la famiglia che si aspetta che tutti ti vedano – finalmente – per la disordinata che sei (veramente). E poi… anche se ti sembra di aver convinto la tua famiglia che lavori tante ore in modi tanto efficienti, resta un tarlo che gira per l’aria che respiri e si infila nei pensieri, che pone la domanda su chi sei veramente: pigra o attiva? Te lo meriti davvero, di essere pagata?
Da oggi io credo che sì: me lo merito. Ma oggi, Anni Venti del XXI secolo, è tanto, tanto, tanto tardi. Ho lasciato scoperte decine di anni. Avrei un conto in banca diverso, se insieme a tanto lavorare avessi messo la consapevolezza che non ero né pigra né incasinata né incasinante.
Da incasinata come dovevo essere – se ti sei guadagnato uno stereotipo, durante l’infanzia, non te ne liberi facilmente solo perché cresci – ho combinato più di un casino. L’adolescenza è il tripudio dei casini. Su questo tratto di vita non invidio quelli a cui hanno profetizzato ordine e disciplina: quando ti guardi indietro, da adulto, non ritorna più il tempo del caos. Per me piuttosto presto è arrivata l’età adulta. Avrei potuto/dovuto/voluto – poi ne parliamo – smettere di far casino. Invece mi sono incasinata sempre di più. Eppure sono sempre riuscita a rialzarmi. Questo mi ha accreditato un nuovo stereotipo: quello di una forte. Questo e la capacità nel frattempo acquisita di ascoltare qualsiasi tipo di racconto da qualsiasi tipo di persona. Una roccia.
Ritorno sulla questione potere/dovere/volere. La prima che va eliminata è la questione del «si deve». Il dovere è sancito dalla Legge e riguarda la necessità che le scelte di qualcuno non ledano qualcun altro. Detto questo, tutto il resto sono cazzi miei. Sul fatto di fare ciò che si vuole invece sono molto più perplessa. Non certo perché è pericoloso – vaccagare e rivaccagare –, posto l’argine di non far male a nessuno di cui sopra. Sono molto, molto in dubbio che sia possibile – figuriamoci facile! – sapere cosa si vuole e perseguirlo. Se ripeschiamo per un momento gli stereotipi che ti hanno appiccicato, ci aggiungiamo il senso di colpa – infido nemico numero uno, inutile zavorra e blocco di ogni libera vita – che ci viene appoggiato sulle spalle in ogni momento della cazzo di esistenza, se un minimo crediamo che non tutto ci sia conscio… davvero pensiamo di sapere che cosa vogliamo? E che, se anche lo avessimo parzialmente chiaro, ci sia dato di poterlo realizzare o quanto meno inseguire? Siamo fatti di trappole e ostacoli. Ci boicottiamo continuamente. Ci profetizziamo la merda. Ecco come siamo fatti. Almeno noi Bits. Forse qualche speranza per le nuove generazioni c’è. La prima e fondamentale dritta che dobbiamo dare loro è di cominciare da quello che possono.
E adesso torno alla me-roccia. Me-forte. Un cazzo. Ho dovuto recitare la parte della forte solo perché non ho creduto mai di meritarmi le cose facilmente. Un’ombra, un’anima sporca, un senso di colpa, una prigione in cui ogni mio aver deluso diventava una sbarra: questo mi ha costretto a essere forte. O a recitare il copione dell’esserlo.
Io non sono forte e non sono debole. Sono – come la maggior parte di noi – un misto di queste due cose. A volte più l’una, altre più l’altra.
La cosa che sono davvero è: vulnerabile. Siccome in latino vulnus significa «ferita», direi che sono «feribile».
Non sono una bandierina facilmente governabile (ma sono abbastanza ingenua). Non sono incapace di portare avanti e cose (ma mi stufo facilmente e sento il bisogno di cambiare). Non sono niente di nero e niente di bianco. Sfumature, colori. Se c’è una cosa però che sono parecchio è proprio quella roba là. Mi entrano le cose nell’emotivo e mi feriscono. Dopo anni e anni di ipersensibilità non ho ancora trovato le corazze. E, se ne ho messa qualcuna, le mie corazze sono piene di buchi in cui infilare una cattiveria o un’ansia. O una paura. O una rabbia. E io ne soffro, vulnerabilmente.
Oggi ho capito che non è quello che gli altri capiscono di me, a decidere chi sono. Ma non prendiamoci in giro: sapere chi sono non mi solleva dal desiderare che gli altri mi vedano davvero.
Legenda:
Bits sta per Born In The Sixties
Mits sta per Mother In The Sixties (Fits = Father)
Mit2 sta per Mother In The Two-thousands (Fit2 = Father)
Pit2 sta per People in The Two-thousands
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