di Carlo Maffei
I 50 anni sono un’età in cui tiri le somme. Quel che hai fatto. Quel che non hai fatto ma del resto non avresti potuto fare. Quel che non hai fatto ma avresti potuto e non hai voluto o saputo fare. Perché questo consuntivo? Perché di tempo non ne hai più. Hai imboccato alcune strade e tutte le altre ormai sono precluse. Sei diventato un giornalista, non lo scienziato che saresti potuto e voluto essere. Così ti prendono dapprima il dispiacere, poi il rimpianto, poi magari la rabbia contro il mondo e contro te stesso, infine la rassegnazione. Ecco, quando arrivi alla rassegnazione, la fase è conclusa. Hai preso atto del fallimento – ché c’è sempre un fallimento, ché il consuntivo è sempre un passivo, per quanto, vista dal di fuori, la tua vita possa apparire un successo – e allora smetti di pensarci. Avevi una sola possibilità e l’hai sprecata. Fine.
Resta un fatto: quando sei nel pieno della crisi, guardi indietro. E soppesi, riconsideri, rivaluti tante esperienze, tante persone. Tanti momenti. E magari fra quei momenti alcuni acquistano un significato speciale: ti accorgi che la tua vita dopo non è più stata la stessa. È cambiata la tua Weltanschauung in modo definitivo. Il tuo Te prima quasi non riconoscerebbe il tuo Te dopo, se lo incontrasse.
Nella mia vita riconosco due momenti così.
Il primo quando ho 19 anni. L’ultimo anno del liceo, pochi mesi prima degli esami di maturità.
Il rito tradizionale della famiglia borghese italiana: la cena davanti alla televisione. Non ricordo che cosa stessi mangiando. Né ricordo quali fossero i discorsi in quel momento. Ricordo solo una sensazione improvvisa, incomprensibile, ingiustificabile. Spaventosa. 34 anni dopo, quella sensazione so riconoscerla fin dalle prime avvisaglie. Eppure, nonostante le innumerevoli volte in cui ho dovuto affrontarla in seguito, non sono mai riuscito a trovare le parole esatte per definirla. Ancora oggi non sono sicuro di averle dato il nome giusto.
Agitazione interiore. Nausea. Debolezza nelle gambe. Disagio. Qualsiasi azione mi urta: la presenza di qualcuno mi infastidisce, la solitudine mi infastidisce. E poi paura. Terrore allo stato puro: senza un oggetto, senza una ragione. Se avessi timore del terremoto, per esempio, potrei uscire di casa per calmarmi. Ma, se la paura non ha un oggetto, se è solo semplice paura immersa in un’agitazione incontrollabile, da che cosa puoi fuggire? Non puoi. Stai lì e te la senti esplodere dentro e non puoi far nulla.
La prima volta, in quella sera di marzo del 1985, l’impatto è devastante. Mi alzo da tavola senza sapere che cosa fare. Mi chiudo in bagno. In modo confuso intuisco che il problema è di origine fisiologica e che devo rilassarmi. Cerco di svuotare l’intestino e per distrarmi leggo la cosa più leggera che mi viene in mente: «Topolino». Niente: l’agitazione e la paura non se ne vanno. Esco dal bagno. Mi chiudo in camera. I miei genitori non capiscono. Nemmeno io capisco: so solo che sto male in un modo nuovo e incomprensibile. Mi butto sul letto. Mi chiedono che cos’ho, ma io non so spiegarlo. Mi sorge un sospetto: questa cosa strana e terribile che mi sta accadendo è legata a… a… al senso di colpa, forse. Magari mi sento in colpa perché non ho studiato abbastanza, perché sono indietro con le tesine di latino, perché non ho fatto un cazzo di quel che avrei dovuto fare, e quindi non riuscirò ad arrivare preparato agli esami di maturità. Non lo sa nessuno. Allora forse se lo rivelo, se manifesto il senso di colpa, riesco a scaricare l’agitazione. Perciò lo dico, confesso, rivelo tutto: non ho studiato, rischio una bocciatura all’esame di latino. Tuttavia non solo l’agitazione non diminuisce, ma si scatena una tragedia familiare. I miei genitori non si rendono conto della gravità del mio stato psicologico, non capiscono che devono anzitutto aiutarmi a uscirne. Invece mi aggrediscono, mi rimproverano, mi insultano. Urla, strepiti. Le solite piazzate che si scatenano nella mia famiglia quando emergono le mie manchevolezze nello studio. Alla fine, dopo rimproveri, urla, insulti, vengo lasciato solo nella mia camera, al buio. Voglio solo il silenzio. L’agitazione e la paura non mi mollano, ma mi accorgo di poter trovare un po’ di sollievo se svuoto la mente da ogni pensiero, se mi concentro solo sull’oscurità delle mie palpebre chiuse. Dopo un po’ prendo sonno e dormo per quasi 9 ore. L’indomani vado a scuola, ma ancora in una condizione di turbamento psicologico, per quanto non più di ansia e di paura.
Di crisi così ne ho avute parecchie, in 34 anni. La successiva, per esempio, proprio nel periodo degli esami di maturità, dopo due giorni con quattro prove scritte. Sono al tavolino di un bar, in una calda sera estiva, e la riconosco subito, fin dai primi sintomi. Torno a casa di corsa, mi spoglio, mi stendo sul letto, svuoto la mente da ogni pensiero, dormo per 14 ore di fila. Negli anni seguenti le crisi si ripresentano, ma ormai ho imparato a identificare i primi sintomi, sia fisici sia psicologici. In modo confuso, ho imparato anche a reagire: devo fermarmi, distendermi, svuotare la mente, se possibile dormire un po’. Però le crisi rimangono una possibilità, una specie di minaccia costante con la quale devo sempre fare i conti, che devo considerare quando progetto un viaggio, un esame, un impegno. Devo sempre stare all’erta, osservare me stesso e come mi sento. Ma non troppo, perché la crisi può esplodere anche autoalimentata: sento crescere un po’ l’ansia, e allora entro in ansia per paura dell’ansia che cresce, e dunque l’ansia cresce ancora di più.
Che cos’è questa cosa? L’ho detto: non sono mai riuscito a darle un nome preciso. Ho indagato e ho scoperto che l’evento più simile è l’attacco di panico. Eppure è diverso. L’attacco di panico si risolve da solo al massimo in qualche ora. Invece io devo dormire a lungo, per riprendermi. Insomma non lo so: lo chiamo «attacco di panico» per semplicità, per farmi capire.
Provocato da che cosa? Ci ho pensato tanto. All’inizio ho trovato una correlazione e l’ho data per scontata per molto tempo: la carenza di sonno. Se dormo poco, il rischio di una crisi aumenta. Del resto sembra confermare questa causa il fatto che ne vengo fuori proprio dormendo. Di conseguenza ho necessità di un sonno sempre sufficiente. Per me è impossibile dormire solo un paio d’ore in una notte: quando mi sveglio, avverto dentro quel principio di agitazione che annuncia l’arrivo della crisi. Una notte in bianco, poi, è del tutto inconcepibile. Anzi, se per caso mi capita di far tardi, comincio a sentirmi in ansia già verso l’una. Alla mancanza di sonno si aggiungono altri fattori che aumentano il pericolo. Il cambio di stagione, per esempio. Ma anche il caldo, perché ho la pressione bassa. E le preoccupazioni legate allo studio, prima, e al lavoro, poi.
Dunque ho cominciato a portare sempre con me gli ansiolitici. Anche se poi non li prendo mai, perché per fortuna riesco a controllare l’insorgere delle crisi anche senza i farmaci. Ma le benzodiazepine sono diventate la mia coperta di Linus: se mi accorgo di averle dimenticate a casa, ecco che comincia l’agitazione.
Negli ultimi anni ho identificato un altro elemento fondamentale, oltre al sonno: l’intestino. Dunque la reazione immediata di chiudermi in bagno, quella sera, per svuotarmi le viscere non era del tutto insensata. Perché anche quando ho l’intestino disturbato aumenta il rischio e mi succede di sentir montare dentro l’agitazione. Attenzione: non è il cervello che agisce sull’intestino, come si potrebbe pensare se fosse una reazione psicosomatica. Proprio il contrario, invece: avverto il disturbo intestinale, lo percepisco riflettersi all’altezza dello stomaco, e poi ecco, mi parte l’ansia. Allora eliminare il lattosio dalla mia dieta, che ho riconosciuto come causa scatenante di tanti disturbi intestinali, ha significato migliorare parecchio la qualità della mia vita.
Ripeto: io lo chiamo «panico» in mancanza di una definizione migliore. Però una cosa so con certezza: se dovesse diventare una condizione permanente, io vorrei l’eutanasia. Quel panico è il corrispettivo mentale della sofferenza fisica provocata da una fiamma ossidrica. Io sono ateo ma, se scoprissi che l’inferno esiste ed è quella roba lì, mi convertirei all’istante. Perché quella è l’esperienza più terrificante, mostruosa, insopportabile che io abbia mai attraversato. Nessun lutto, nessuna perdita, direi perfino nessun dolore fisico mi ha mai devastato e terrorizzato così.
Dunque il primo attacco di panico è uno dei momenti fondamentali della mia vita. Non ne ho mai scritto finora, anche se chi mi conosce bene sa quanto sia stato importante per me. Farlo adesso, qui su Machaira, mi lascia – devo ammetterlo – un po’ turbato. Infatti quelle crisi hanno segnato tutta la mia esistenza, sono state il denominatore comune delle ragioni di tante decisioni, mi hanno costretto a conviverci, mi hanno condizionato e limitato.
Eppure c’è un altro aspetto importante di quell’episodio: la reazione non solo inadeguata ma addirittura controproducente dei miei genitori. Come sempre. Come ogni loro reazione: incomprensione e giudizio, ogni volta. Ogni cazzo di volta, solo incomprensione e giudizio.
E questo mi conduce al secondo momento fondamentale della mia vita, 15 anni dopo.